La collaborazione tra personale sanitario israeliano e palestinese acquisisce un significato simbolico e concreto, non solo nel campo medico, ma anche nello sforzo di ottenere pace e giustizia in quest'area di conflitto. Per la prima volta nella storia, nel 2013 un ministro palestinese ha visitato il complesso ospedaliero di Hadassah, eccellenza della sanità a Gerusalemme, accompagnato da una delegazione di funzionari palestinesi. Nel 2012 oltre 210 mila palestinesi sono entrati in Israele per trattamenti sanitari e medici. Il dato è vistosamente cresciuto anche soltanto rispetto al 2008, quando i palestinesi del West Bank e della Striscia di Gaza che hanno beneficiato di cure mediche gratuite nello stato ebraico sono stati 172 mila
Per uno Stato Laico e Democratico nella Palestina Storica, la Medicina per la Pace
by Cinzia Chighine*
Regione Toscana, Attività Internazionali
Venti anni fa, esattamente il 13 settembre 1993, sono stati firmati gli accordi di Oslo all’interno dell’autorevole cornice della Casa Bianca: una stretta di mano simbolica tra il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin e il Presidente dell’OLP, Yasser Arafat ha siglato lo straordinario momento, segnando il processo di Pace in Medioriente.
Dopo un ventennio, il processo politico, così entusiasticamente lanciato – perchè di Pace si trattava – appare oggi nel corso della Storia recente solo un obiettivo intermedio in un percorso iniziato il 29 novembre 1947, con la Risoluzione delle Nazioni Unite che sancì la spartizione della Terra d’ Israele con la Palestina.
Molti fattori hanno contribuito al collasso del processo di Oslo, ma la radice del suo crollo e i semi della catastrofe, che seguì, furono piantati dai tre leader Arafat, Rabin e Peres. Tutti e tre ricordati nella storia “Uomini di Pace” ma con forti responsabilità fin dall’inizio del processo nel fallimento degli Accordi stessi [1].
Arafat non ha saputo o voluto agire come uomo della transizione palestinese, dimostrando limiti sia in termini di mentalità che di leadership, non svolgendo a pieno il ruolo da Statista che l’era diplomatica gli richiedeva. L’esempio più evidente è l’immagine del suo arrivo alla cerimonia della Casa Bianca per la firma, indossando una divisa militare. La scelta di non cambiare l’uniforme in un vestito di affari, ha sancito per sempre nel ricordo storico di tutti il ruolo da combattente più che da grande statista.
Da parte israeliana, Peres e Rabin hanno fatto un grosso errore a non comunicare alle opinioni pubbliche israeliane e palestinesi, subito dopo la firma degli Accordi di Oslo, il fatto che questa nuova fase rappresentasse una profonda trasformazione della politica israeliana, che mirasse finalmente a conseguire un’inequivocabile soluzione di due Stati per due Popoli sulla base dei confini del 1967 – condizionati, naturalmente, al corretto rispetto delle misure di sicurezza per entrambi i territori.
Di conseguenza, gli apparati della burocrazia israeliana non hanno mai regolato un nuovo approccio “di buon vicinato” con i palestinesi: i vari attori delle Forze di Difesa israeliane, la Polizia e Ministeri non hanno mai trasformato il loro atteggiamento psicologico e pratico per una nuova realtà in evoluzione.
In pratica, Rabin e Peres hanno intenzionalmente lasciato vaga la visione dei negoziati, così facendo hanno generato una dissonanza tra visione diplomatica internazionale e gravi conflittualità interne.
La mancanza di una strategia israeliana chiara e condivisa ha creato un problema che ben presto è divenuto ancora più ruggente con l’accordo del 1995: quando la squadra negoziale israeliana scoprì che le istruzioni erano di raggiungere un esito nella trattativa che avrebbe lasciato aperte tutte le opzioni – “forse ci sarà uno Stato palestinese, o forse no, forse Israele si ritirerà , o forse no, forse ai palestinesi si sarebbe accordata solo l’autonomia, o forse no” – l’assenza di qualsiasi strategia ha portato ad un accordo minimo con il solo esito concreto di imporre superficiali “successi” israeliani ai palestinesi con l’obiettivo generale di negare loro i necessari passi per la creazione di uno stato emergente in Palestina. Questa situazione ha contribuito sostanzialmente al fallimento della realizzazione degli accordi di Oslo.
Allo stesso tempo, Israele ha continuato – fino ad oggi- la costruzione e l’espansione degli insediamenti, lanciando un messaggio interpretato da molti palestinesi, e non solo, come un segnale evidente che Israele non potrà mai ritirarsi da queste zone. Inoltre, l’umiliante trattamento sul terreno di tutti i palestinesi come nemici potenziali continua in maniera e frequenza sempre più cruenta, anche se la maggior parte dell’opinione pubblica israeliana è convinta che “la popolazione vicina” ormai non costituisca più una minaccia per Israele.
Le relazioni tra Israele e i palestinesi sono deteriorate a un ritmo sempre più veloce sotto la prima amministrazione Netanyahu (1996-1999) e con la sucessiva amministrazione 1999-2001 di Ehud Barak, che ha contribuito sostanzialmente al deterioramento della situazione. Lo stesso fallimento del vertice di Camp David, che per alcuni opinionisti [1] è in gran parte attribuibile alla strategia sbagliata di Barak sui negoziati – ha scatenato l’ Intifada , che a sua volta ha portato alla violenza reciproca e la perdita di fiducia nella possibilità di realizzare la Pace in Terra Santa.
Oggi, a vent’anni da Oslo, è giunto il tempo di fare tutto il possibile al fine di portare il conflitto israelo-palestinese a termine e di intraprendere un viaggio nuovo, scardinando e andando oltre l’attuale visione diplomatica internazionale, ponendo nuovi obiettivi alle società israeliana e palestinese, affrontando le ingiustizie e la reale condizione dei cittadini arabi di Israele nel corso degli anni.
Una nuova strategia capace di affrontare, ad esempio, la definizione dello Stato non più solo come quella del popolo ebraico – una formulazione adeguata nel periodo post seconda guerra mondiale – ma di uno Stato laico e democratico nella Palestina storica [2], di tutti i suoi cittadini [3]. Una nuova strategia capace di essere dinamica e ricettiva al cambiamento.
Nel rinnovamento, la società dovrà necessariamente formulare un nuovo denominatore comune il più ampio possibile tra le sue diverse componenti, al fine di facilitare l’integrazione di tutti, riconoscendo sostanzialmente l’effettiva natura della società israeliana e nel contempo permettendo agli arabi di sentirsi cittadini a pieno titolo, con pari diritti e doveri.
Nella realtà attuale sembra che Israele non abbia una politica di Pace. Le continue dichiarazioni a sostegno della Pace e di due Stati non costituiscono una strategia, soprattutto quando si scontrano con la realtà drammatica degli insediamenti in espansione, gli avamposti illegali che fioriscono settimanalmente, l’assoluto immobilismo dello sviluppo economico e sociale palestinese in Area C (il 60 per cento della Cisgiordania) bloccato a causa della costante minaccia di annessione israeliana, l’aumento delle by pass roads, riservate agli israeliani, le zone militari chiuse, attorno alle città e ai villaggi palestinesi, che hanno cancellato ogni possibilità di uno stato contiguo, la conseguente cantonizzazione della Cisgiordania che ha prodotto delle enclave palestinesi, circondate da insediamenti israeliani, simili a bantustan del Sudafrica.
La sensazione generale per i palestinesi è quella di umiliazione, con nessun cambiamento all’orizzonte, nonostante che le recenti risoluzioni europee in materia di controllo israeliano sulla Cisgiordania sembrano aver aperto una campagna anti-israeliana che pone una minaccia economica per il Paese.
La mancanza di progressi politici indebolisce anche la parte palestinese moderata, la quale continua a sostenere l’ approccio di “Due Stati” sulla base dei confini del 1967 [4].
L’ attuale iniziativa guidata dal Segretario di Stato americano John Kerry sembra offrire l’opportunità di avanzare nel processo sempre più complesso e intricato. Ma la realtà ci offre attualmente una combinazione particolarmente sfavorevole: un governo israeliano che non è disposto a portare avanti l’agenda di Pace, un’opinione pubblica israeliana apatica e scettica, gli sconvolgimenti nel mondo arabo, che molti in Israele percepiscono come una minaccia, la debolezza politica della leadership palestinese, che soffre di una grave divisione sostanziale tra Fatah e Hamas, così come tra la Cisgiordania e Gaza, limitando ulteriormente la manovrabilità politica palestinese.
Negli ultimi tre decenni i progetti negoziali falliti hanno disseminato di carcasse la diplomazia mediorientale. Per più di 30 anni, esperti e politici hanno avvertito un “punto di non ritorno”. Il Segretario di Stato John Kerry è solo l’ultimo di una lunga serie di diplomatici americani sposati ad un’idea il cui tempo è ormai passato.
Entrambi le parti hanno motivi per aggrapparsi all’ illusione della “Two States Solution“. L’Autorità palestinese ha bisogno che la sua gente continui a credere che si stiano compiendo progressi verso una soluzione a due Stati in modo che possa continuare a ottenere gli aiuti economici e sostegno diplomatico utili a sovvenzionare gli stili di vita dei suoi leader, i posti di lavoro di decine di migliaia di soldati, spie, agenti di polizia e funzionari pubblici e la prominenza del potere in una società palestinese che lo vede come corrotto e incompetente.
Il Governo israeliano si aggrappa alla nozione dei due Stati , perchè sembra riflettere i sentimenti della maggioranza ebraica israeliana e mimetizza sforzi incessanti per espandere il territorio di Israele nella West Bank.
I politici americani hanno bisogno dello slogan “due Stati” per mostrare che stanno lavorando per una soluzione diplomatica, per mantenere la lobby pro-Israele e per mascherare la loro incapacità umiliante di una strategia diplomatica alternativa.
Infine, l’industria del “Processo di Pace” – con le sue legioni di consulenti, esperti, accademici e giornalisti ha bisogno di un rifornimento costante di lettori, ascoltatori e finanziatori. Il tutto produce un terribile congelamento [5].
Di fronte l’esigenza ruggente di quotidianità e sopravvivenza delle due popolazioni.
La situazione è similare alla Spagna del 1975, quando il dittatore Francisco Franco è entrato in coma: i mezzi di informazione hanno iniziato una lunga veglia di morte, annunciando ogni notte che il Generalissimo Franco non era ancora morto. Questa disperata fedeltà accomuna le speranze nel viatico della soluzione dei due stati oggi.
E’ vero che alcuni coma miracolosamente finiscono e grandi sorprese a volte capitano. Il vero problema è che i cambiamenti necessari per realizzare la visione della realizzazione dei due robusti Stati, israeliano e palestinese, richiederebbero oggi più che mai un alto livello di attenzione diplomatica, che ad oggi è carente e scadente.
Notizia di questi giorni è che in cambio di un accordo fra le parti, Bruxelles offre buoni affari in Europa. La proposta “Partnership Privilegiata Speciale”, giunta nel dicembre 2013 da Bruxelles – che con una mano ferma critica le colonie israeliane, ma con l’altra torna a proporre una pace economica tra le parti – si basa su un pacchetto senza precedenti da parte dell’Unione Europea di supporto politico, economico, cooperazione sanitaria e sicurezza ad entrambe le parti, israeliana e palestinese, se saranno in grado di finalizzare la Pace [6]. La proposta dei 28 è cristallina: la UE offrirà a Israele e al futuro Stato di Palestina l’ingresso facilitato nel mercato europeo, rapporti di natura culturale e scientifica, sostegno nell’investimento e nel commercio con partner europei. Precondizione al super-pacchetto europeo (oltre, ovviamente, ad un accordo di Pace definitivo) è il congelamento dell’espansione coloniale israeliana nei Territori Occupati.
Il piano europeo rientra perfettamente in quella “pace economica” che l’amministrazione di Washington tenta da tempo di far passare come il miglior strumento per un accordo che ponga fine a sei decenni di conflitto. Un’opzione che lo stesso premier Netanyahu ha più volte ribadito e che ha trovato la sua massima espressione, il maggio scorso, nell’iniziativa “Breaking the Impasse” di 200 businessman israeliani e palestinesi: parlare di affari e fare affari per risolvere le questioni politiche [7].
Dal punto di vista oggettivo, l’attuale prospettiva è che l’opzione dei due Stati è svanita, e ciò che rimane è quello di agire attraverso mezzi non violenti per stabilire uno “Stato Unico” indipendente e democratico tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Al di là della trappola della normalizzazione e oltre le politiche israeliane di destra, tra cui l’estremismo religioso, che si basano su una promessa divina e una equazione che pone la Terra al di sopra del Popolo e dello Stato, sempre più esponenti della politica isreliana e palestinese [8] recentemente propongono formule su uno Stato Unico come soluzione al conflitto, sostenendo un singolo stato egualitario [9].
Ghada Karmi – medico, scrittrice e docente universitaria di origine palestinese [10] – nel suo recente libro dal titolo “Sposata a un altro uomo. Israele e la questione palestinese”, ripercorre le tappe più importanti del conflitto mediorientale da quando l’idea di costituire uno Stato ebraico in Palestina fu per la prima volta discussa, e porta avanti la tesi del “One-state solution“: quella di uno Stato unico, laico e democratico, nel territorio della Palestina storica, che assicuri a tutti i cittadini, arabi, ebrei e di altre culture e religioni, uguali diritti di cittadinanza.
La sua analisi nasce dal tentativo di offrire nella complessità del conflitto un contributo alla sua soluzione, proponendo, con approfondite analisi storiche e psicologiche, una tesi ritenuta impopolare: “Uno Stato laico e democratico” dove i diritti non derivano dall’appartenenza a un gruppo etnico o religioso, ma dalla legge che ne stabilisce l’uguaglianza e che riflette la situazione attuale di multiculturalità della popolazione in quell’area a causa anche delle migrazioni di persone ebree da tutto il mondo, che Israele ha favorito.
D’altra parte, le società arabe hanno avuto storicamente una connotazione di pluralismo e tolleranza religiosa e l’analisi mostra come quelle terre siano state rifugio degli stessi ebrei dalle persecuzioni nei secoli.
Un percorso lungo, un futuro lontano, attivando e ricostruendo un’identità che inizi il suo cammino verso un senso reciproco di appartenenza e coesione sociale. Soluzione in prospettiva migliore di quella attuale, in cui il senso di supremazia, di discriminazione, di proprietà esclusiva comincia, anche se molto gradualmente, a modificarsi attraverso lotte difficili, democratiche, un lento processo dello sviluppo della consapevolezza. Una sfida formidabile che col tempo soprattutto le nuove generazioni si sentiranno di costruire per la Pace e la convivenza, orientate verso la creazione comune di una nuova società .
La speranza è supportata dall’esempio del Sud Africa anche nelle forme del pentimento e della riconciliazione con i riconoscimenti delle ingiustizie commesse e le pratiche di riparazione verso le vittime. Una lotta che, oltre a rendere desiderabile la soluzione di uno stato unico e democratico, è ora solo quella concretamente fattibile e preferibile in assoluto, salvaguardando le necessità di sicurezza d’Israele, le sue umane paure e i bisogni di giustizia dei palestinesi.
Proprio come un palloncino riempito gradualmente con raffiche d’aria, quando è passato il limite della sua resistenza alla trazione, scoppia, così ci sono soglie di radicali squarci in determinati momenti storici a cui far fronte con un cambiamento dirompente in politica [11]. Quando più inclinature si incrociano, l’impossibile diventa improvvisamente probabile, con implicazioni rivoluzionarie per i governi e le nazioni. Come si vede vividamente in tutto il Medio Oriente, quando le forze di cambiamento e di nuove idee sono soffocate da tutto e per troppo tempo come la popolazione palestinese è stata ed è nel conflitto israelo-palestinese, il cambiamento improvviso, inaspettato nelle strategie diplomatiche, diventa sempre più probabile [12].
A livello pratico, giorno per giorno, un singolo Stato appare oggi più che mai un concetto che sembra oggettivamente possibile da attuare e sostenere nella pratica quotidiana, parlando di affari economici, di occupazione giovanile ma soprattutto di salute e gestione delle cure mediche, dove la priorità della vita scavalca i rigidi confini e allaccia legami. Le differenze e le divisioni tra Israele e Palestina sono immense: due culture, due religioni, due nazionalità , due racconti, due identità . Tutto è diverso ma di fronte all’emergenza della salute per se stessi o un proprio caro compare un denominatore comune per colmare l’enorme divario. In quell’istante, in quel luogo, in quello spazio entrambe le parti raggiungono il punto in cui si è in grado di condividere e superare i propri simboli, ricordi e paure.
Nella West Bank, a causa dell’aggravarsi della situazione socio-politica e umanitaria, degli effetti di più di 40 anni di occupazione israeliana e dell’aumentata dipendenza dagli aiuti esterni, l’accesso a servizi medici sostenibili per i residenti palestinesi è stato fortemente compromesso e le possibilità di sviluppo di un sistema sanitario palestinese indipendente sono, allo stato attuale, difficilmente realizzabili.
Le restrizioni alla libertà di movimento imposte dalle forze di occupazione israeliane alla popolazione palestinese creano gravi problemi sia per quanto riguarda l’accesso dei pazienti ai servizi sanitari sia per quanto concerne la formazione e l’aggiornamento di personale medico e la costruzione di un efficace sistema sanitario. Gli indicatori di salute evidenziano la critica situazione in cui si trova il sistema sanitario palestinese: la mortalità infantile è sei volte superiore a quella di Israele mentre la mortalità materna è addirittura 20 volte più alta [13].
Per la prima volta nella storia, nel maggio 2013 un ministro palestinese ha visitato il complesso ospedaliero di Hadassah, eccellenza della sanità a Gerusalemme, accompagnato da una delegazione di funzionari palestinesi. L’incontro con i vertici dell’ospedale israeliano era finalizzato ad accrescere il numero di medici palestinesi che prestano servizio presso la struttura sanitaria (attualmente non meno di 60) eccellenza nell’area mediorientale, e a favorire la cooperazione fra l’Hadassah Medical Center e l’ANP. La visita dei vertici della sanità palestinese rientra nel quadro di una quotidiana collaborazione in ambito di cooperazione sanitaria intercorrente.
Nel 2012 oltre 210 mila palestinesi sono entrati in Israele per trattamenti sanitari e medici. Il dato è vistosamente cresciuto anche soltanto rispetto al 2008, quando i palestinesi del West Bank e della Striscia di Gaza che hanno beneficiato di cure mediche gratuite nello stato ebraico sono stati 172 mila [14].
L’obiettivo generale degli interventi di cooperazione sanitaria tra Israele e Palestina, spesso sostenuti in un quadro di accordo trilaterale con un partner europeo, è quello di promuovere e tutelare il diritto alla salute della popolazione palestinese che risiede nei Territori occupati, nonchè di favorire un processo di collaborazione e dialogo fra operatori sanitari israeliani e palestinesi.
Attraverso il sistema sanitario palestinese e, nel contempo, la riduzione delle barriere tra popolazione israeliana e palestinese, si esprime la solidarietà concreta, la denuncia delle politiche che limitano il corretto funzionamento del sistema sanitario e l’accesso alle cure, coinvolgendo i cittadini israeliani ad agire per il cambiamento.
In questo senso la collaborazione tra personale sanitario israeliano e palestinese acquisisce un significato simbolico e concreto, non solo nel campo medico, ma anche nello sforzo di ottenere pace e giustizia in quest’area di conflitto. La sostenibilità dell’azione è quindi anche intesa nel rendere possibile il proseguimento del dialogo e della collaborazione israelo-palestinese.
Il problema non sta nella divisione fisica della terra ma piuttosto nella volontà e il coraggio politico di farlo.
Dialogare è difficile e complicato e richiede pazienza e tempo, ma è sicuramente un investimento. Bisogna mantenere aperti tutti gli spiragli e non spegnere il lucignolo che fumiga. Nel dialogo professionale del sistema sanitario palestinese ed israeliano in termini di capacity building e di formazione professionale ad esempio sembra che ciò sia già possibile.
RIFERIMENTI
1- Ron Pundak, “20 years on, Oslo architect has plan B” (articolo pubblicato il 21 Settembre 2013 in Haaretz).
2- Ghada Karmi, “Sposata a un altro uomo. Per uno Stato laico e democratico nella Palestina storica”, DeriveApprodi, Roma 2010.
3- E’ giusto ricordare che circa il 20% dei cittadini dello Stato d’Israele sono arabi e almeno altri 200.000 sono cristiani immigrati in Israele da Stati dell’ex Unione Sovietica nel quadro della “Legge del Ritorno”.
4- Ron Pundak , “Secret Channel - Oslo” pubblicato da Fondazione Konrad Adenauer 2013.
5- Yossi Beilin, “Beware the extremists: lesson from Oslo, twenty years on”, pubblicato in Haartez il 9 settembre 2013.
6- Comunicato emesso il 16 dicembre 2013 dai Ministeri degli Esteri europei.
7- Ian S. Lustick, “Illusione di due Stati” pubblicato in Haartez il 14 settembre 2013.
8- Heinrich Boll Stiftung, “20 Years since Oslo: Palestinian Perspectives in Perspectives. Political Analyses and Commentary from the Middle East & North Africa”, Issue n. 5 pubblicato in Dicembre 2013.
9- Danny Danon, “Israel’s Deputy Defense Minister calls for the annulment of Oslo Accords”, pubblicato in Haartez il 21 settembre 2013.
10- Ghada Karmi, docente all’università di Exter è una donna palestinese, vissuta in Inghilterra, diventata la sua patria di adozione. Situazione condivisa da milioni di profughi dopo il 1948, anno del riconoscimento della creazione dello stato di Israele, che diede origine alla più vasta diaspora di un popolo nel Medio Oriente.
11- Yossi Sarid, “Confessions of an Oslo Criminal“ pubblicato in Haartez il 19 luglio 2013.
12- La storia offre molte di queste lezioni. In Gran Bretagna, ad esempio, l’intera classe politica britannica considerava l’incorporazione permanente dell’Irlanda come un fatto politico inequivocabile fino al diciannovesimo secolo. Dal 1880, la questione irlandese ha rappresentato per la politica britannica la questione più importante, comportando l’ammutinamento nell’esercito e una guerra civile. Una volta finita la guerra, ci sono voluti un paio di anni per la nascita di un’Irlanda indipendente. Cosa era inconcepibile prima è diventato un dato di fatto poi.
13- Fonte “WHO monthly reports on Gaza and WestBank“ reperibili in Local Development forum (www.lacs.ps).
14- Adiv Sterman, “PA health minister in first visit to Hadassah hospital” pubblicato in The Times of Israel, 6 maggio 2012.
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*Cinzia Chighine, nata a Viareggio nel 1974 e cooperante di professione per dieci anni in Africa e Medioriente, oggi vive a Firenze dove lavora nel Settore Attività Internazionali della Regione Toscana.